Quando il covid provoca contorsionismo (mentale)

A volte preferiremmo non sapere, e vale anche per quello che avviene nel nostro cervello. Ne ho avuto la prova negli ultimi giorni, di fronte alle contorsioni mentali causate da una domanda che Giovanni Floris mi aveva posto durante la trasmissione Dimartedì. Perché contorsioni mentali?

Andiamo con ordine. La domanda di Giovanni Floris era questa: “Anche di fronte all’evidente gravità della pandemia da coronavirus c’è chi si ostina a negarla. Addirittura c’è chi evoca complotti, non si sa peraltro da parte di chi. Ma cosa può succedere? Quanti danni può fare il cosiddetto negazionismo?”. Nel rispondere ho citato un commento di un neuroscienziato esperto in malattie neurodegenerative di nome Bruce Miller, pubblicato sull’autorevolissima rivista scientifica Jama. Miller ha ipotizzato che le false convinzioni si radichino nel cervello di chi nega l’evidenza tramite un meccanismo parzialmente simile a quello che si verifica in alcune demenze, Solo che nel caso della malattia, sono i sensi a restituire al cervello una immagine falsa della realtà, nelle persone sane invece questa immagine falsa si instilla nella mente per via della difficoltà a distinguere le informazioni giuste da quelle sbagliate. Ho proseguito quindi dicendo che di fronte alla emergenza posta dal nuovo coronavirus è comprensibile essere attratti dall’idea di negarne l’esistenza o la pericolosità, ma si tratta di una illusione, per giunta pericolosa. Questo in sintesi, l’ìntervento completo è qui

Dunque sia nella domanda che nella risposta si sottolineava che si stava parlando di chi nega l’esistenza o la pericolosità del coronavirus, non di altri. Ribadirlo però non ha impedito quelle che ho chiamato contorsioni (mentali). Qualcuno infatti ha fatto finta di vedere un attacco a chiunque non sia d’accordo con le misure del governo per contrastare l’epidemia. Le contorsioni si sono poi trasformate in acrobazie degne del più ardimentoso degli scoiattoli volanti, quando d’un balzo hanno portato a paragonare l’argomento di Miller con le persecuzioni dei dissidenti nell’Unione Sovietica. Per toccare punte di virtuosismo assoluto in qualcuno che ha negato l’esistenza dei negazionisti, affermando che non esiste al mondo chi ritiene il coronavirus non pericoloso: queste figure immaginarie le avremmo inventate io ed altri, tanto per avere un nemico contro il quale scagliarci

Allora nel citare l’articolo di Jama è stato leso qualche diritto? 

Cominciamo dai fatti: il virus Sars-CoV-2 esiste ed è estremamente pericoloso: in un numero consistenti di casi uccide o fa stare molto male. A quanto ne sappiamo oggi, il modo più efficace contrastarlo è limitarne la diffusione, proteggendoci con mascherine, distanziamento, disinfezione, ed evitando di affollarci. Negare questi punti è come negare che esistano gli incidenti su strada: non ha senso. Si può comunque? Dipende: non se questo induce a mettere a rischio la vita degli altri. Una cosa è negare a tavolino l’esistenza degli incidenti d’auto, un’altra è comportarsi di conseguenza infilandosi a tutta velocità in autostrada contro mano. Se negare l’esistenza del virus porta a comportarsi in modo da diffonderlo, la società ha diritto di tentare di impedirlo. Perché il pericolo esiste, e se qualcuno contagia altri può ucciderli: non possiamo evitare del tutto che il contagio avvenga, ma è giusto che ci sia richiesto di stare attenti. Un conto è provocare un incidente per un involontario imprevisto, un altro è andare a cercarselo. Anche provare a evitare di contagiare se stessi sarebbe opportuno, perché se mi espongo volontariamente al rischio poi, in caso, la collettività dovrà occuparsi di me nelle strutture sanitarie, magari lasciando indietro altri arrivati dopo o che avrebbero diritto a interventi anche se meno urgenti. 

Invece è lecito discutere dell’opportunità delle misure prese per contenere il virus?  Assolutamente sì, e infatti mi pare che tutti noi non facciamo altro. Di fronte all’emergenza dovuta all’epidemia, le autorità prendono atto dei fatti noti e disegnano delle misure per arginare il virus. Provvedimenti che inevitabilmente cercano un compromesso tra quello che sarebbe ideale fare e la necessità di salvaguardare alcune parti della nostra vita lavorativa ma anche personale. Pensiamo alla giustissima discussione sulla chiusura delle scuole, in Italia praticata più che altrove: è ovvio chiedersi se l’insegnamento da remoto sia la scelta che offre il miglior rapporto fra costi e benefici.  E lo stesso vale per le modalità di chiusura dei negozi, dei ristoranti e così via. Fra l’altro molte decisioni sono diverse da Paese a Paese, ed è un continuo ed essenziale cercare di capire quali funzionano meglio e perché. E a monte di tutto, c’è da tracciare il filo che separa quanto può essere lasciato alla responsabile individuale e quanto deve essere invece imposto. Ad esempio l’uso della mascherina, obbligatorio in certi Paesi dai sei anni, in altri dai dodici, in altri ancora mai, mentre in certe zone dell’Asia non c’è bisogno di imporla perché le persone troverebbero il non metterla assurdo tanto quanto uscire senza pantaloni. E a proposito; in nessuna parte del mondo esiste il diritto di decidere in totale autonomia quale parte del corpo coprire. Ovunque dipende da un misto di usanze, opportunità e rispetto degli altri. Se avete dubbi provate a entrare in una stazione della polizia con un passamontagna calato sulla faccia o ad andare a spasso in centro in koteka (trattasi di una zucca svuotata e utilizzata da alcuni uomini della Nuova Guinea come copertura per le parti intime). 

Poi una ultima osservazione: quando ho letto l’articolo su Jama sul come si potrebbero radicare nel cervello idee senza fondamento, immediatamente ho cominciato a pensare quali potrebbero essersi radicate nel mio. Altri invece hanno pensato alla violazione della libertà di pensiero nella Russia sovietica. La mente umana avrà i suoi punti di debolezza, ma indubbiamente è varia.

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Il ricercatore e la caccia al virus che colpì suo figlio

Nel 2014 la famiglia di Reley Bove venne colpita da qualcosa che sembrava un forte raffreddore. Mentre tutti gli altri si ripresero, nel bimbo più piccolo si manifestarono sintomi terribili: difficoltà respiratorie e poi una paralisi totale. Quella che sembrava una semplice infezione, era in realtà qualcosa in grado di provocare mielite flaccida acuta, una malattia ancora in buona parte misteriosa che può portare a conseguenze simili a quelle della poliomielite. È una malattia rara, che da quando è stata identificata per la prima volta nel 2012 sembra essersi manifestata in modo conclamato solo in circa 500 casi, soprattutto negli Stati Uniti. Ciò nonostante ha tutte le caratteristiche per far paura. Perché è una malattia causata da un agente infettivo, che dunque potrebbe un giorno diventare ben più diffusa, e perché di questo agente infettivo sappiamo molto poco. Ora, lo stesso Reley Bove è fra i firmatari di uno studio uscito su Nature Madicine che potrebbe portare a una svolta. I ricercatori infatti ritengono di aver identificato tracce di un enterovirus nel liquido cerebrospinale in circa 30 dei 42 pazienti da loro studiati. Si confermerebbero dunque i sospetti che la malattia sia causata da un virus di verso da quello responsabile della poliomielite, ma comunque affine ad esso. Identificare il virus è il primo passo verso un modo efficace per c contrastarlo. Agenti infettivi potenzialmente pericolosissimi sono sempre dietro l’angolo, la sfida è essere rapidi nel capire come affrontarli, per evitare le stragi del passato  e ridurre al minimo le vittime di oggi.

Zecchi ed io

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Vi presento Zecchi. E’ stata il mio animale da compagnia per qualche settimana, anche se non ha mai goduto di una intimità paragonabile a quella meritata da Fairouz la gatta. Colpa sua: ha voluto a tutti i costi venire a vivere con me. Così, mentre credevo di raccogliere solo funghi (pochi), lei si è lasciata cadere ed è venuta a casa, del tutto inosservata. Quando mi sono accorta della sua presenza, era già pasciuta di sangue umano. Anche l’etologa Lisa Signorile non ha avuto dubbi: dal video si riconosce uno stadio giovanile di Ixodes ricinus, cioè appunto una zecca dei boschi. Non l’ho accolta bene. Le zecche dei boschi possono essere molto pericolose. Non solo possono trasmettere una forma di encefalite (da cui sono vaccinata, perché come sapete io considero i vaccini una risorsa vitale), ma forniscono un. passaggio anche ad altri agenti patogeni e in particolare a batteri del genere Borrelia, responsabili della malattia di Lyme, o borrelliosi. Questa è particolarmente infida. Può causare problemi ai muscoli, alle articolazioni, agli occhi… Sta diventando sempre più diffusa, si pensa anche per colpa degli inverni più miti,. Esiste una efficace terapia antibiotica ma naturalmente viene prescritta solo se l’infezione è accertata…. e a volte i primi sintomi passano inosservati…. , Ora è trascorso sufficiente tempo e tutti gli accertamenti dicono che Zecchi era “pulita”. Niente Borrelia. La nostra convivenza è al termine. Intanto, potrebbe essere presto disponibile un vaccino efficace contro la malattia di Lyme e questa è una ottima notizia. E se mai un giorno scriverò una versione più estesa di “le Grandi Epidemie“, di certo mi dilungherò di più sulle malattie che possono essere trasmesse dagli animali all’uomo (anche se nel libro c’è già un capitolo sulla peste e non solo) . E mi ricorderò dei giorni in cui Zecchi ha abitato nella mia libreria, chiusa in una scatolina per l’osservazione degli insetti….

The National Health Service: Portrait of an “Italian Excellence” for the use of non-Italians

Questo articolo nasce dal fatto che sempre più spesso mi trovo a parlare del nostro Servizio Sanitario Nazionale con non italiani, ultimamente in particolare con svizzeri. Se da un lato noto spesso stupore quando gli interlocutori scoprono come il nostro Sistema Sanitario Nazionale funziona e cosa offre, dall’altro a mia volta io mi sorprendo del come si possa dichiarare soddisfazione verso sistemi in cui la salute dell’individuo non è considerata un bene che la comunità dovrebbe tutelare. Ho scritto dunque in inglese per raccontare agli stranieri quello che considero un motivo di vanto per l’Italia, E ho raccontato in particolare due dei settori in cui il Servizio Sanitario Nazionale da il meglio di sé, scelti fra quelli nei quali mi è capitato di imbattermi nel mio lavoro di giornalista scientifica.

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Traveling in foreign countries, there is one thing I noticed: Italians living abroad usually miss the Italian health system, the so-called Servizio Sanitario Nazionale (National Health Service, SSN).

It might sound hilarious, given that in the homeland complaining about health system seems to be one of the favourite leitmotifs. Indeed this is a typical case in which it seems that you need to put some distance between yourself and something in order to appreciate it.

The National Health Service has been instituted 40 years ago, in 1978, thanks to Tina Anselmi, who was at that time minister of health (the first woman in Italy to hold that office).  Since then, the National Health Service has demonstrated to be one of the “Italian excellences”. To understand what makes it special, it is useful to read what it is stated in the law ratifying its establishment.

“The Italian Republic protects health as a fundamental right of the individual and the interest of the community through the National Health Service. The protection of physical and mental health must take place respecting the dignity and freedom of the human being. The National Health Service consists of all the functions, facilities, services and activities for the enhancement, maintenance and recovery of the physical and mental health of the entire population without distinction of individual or social conditions and in accordance with procedures that ensure the equality of citizens towards the service. The implementation of the National Health Service is responsibility of the State, the Regions and Local Territorial Bodies, guaranteeing the participation of citizens.”(La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività  mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della  persona umana. Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e  delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di  tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che  assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’attuazione del servizio sanitario  nazionale compete allo Stato, alle regioni e agli enti locali territoriali, garantendo la partecipazione dei cittadini. L. 23 dicembre 1978, n. 833 (1).)

With these words, the State takes on itself the responsibility of the health of each individual person in Italy. That means, that doesn’t matter how wealthy, young or old he/she might be: from the point of view of the health, everybody in Italy has the right to receive effective medical assistance. It is also important to note, that the individual health is considered to be not only in the interest of the single person but rather of the whole community. This is a very wise concept, given the social cost that each ill-cured person has, in terms of family burden but also loss of productivity and so on.

Of course the system is not perfect at all, and the discussion about how to make it more efficient is old almost as much as the health system itself. One of the main problems are the differences in the quality of the services across Regions, especially moving from north to south. These problems are the starting point of the many complains you can hear in Italy about the Servizio Sanitario Nazionale. But the weak points, although several, should not let us forget how lucky we are to have it.

Being a journalist specialized in Science and Medicine, it is not rare for me to come across amazing examples of its achievements. I’ll report here about two of them: birth assistance and organ transplantations.

One of the moments in which the Italian health System gives its best, is birth. All pregnant women have the right to be assisted in a hospital, including those who are illegal immigrants. And the results are remarkable. One of the most important indicators to understand the quality of infant assistance is the so-called Infant Mortality Rate, expressing the number of deaths of children under one year of age per 1000 live births. According to the more recent Eurostat data, in 2016 in Italy there were 2,8 deaths for 1.000 live births (this kind of data needs time to be collected and analyzed, that’s why usually they pertain to more than one year before). Although of course each single death is a tragedy, overall the result is very good. In comparison, in France there have been recorded 3.7 deaths for 1.000 live births, in Germany 3.4 and in Switzerland 3.6. Better results are scored in Sweden, with 2,2 deaths for 1.000 live births, or in Finland, with 1.9. Unfortunately, the Italian national scores hide internal differences. “Would we separate the data from the south from those from the north of Italy, we would discover that in the north the Infant Mortality Rate is actually comparable with the best scores recorded in North European countries. The average Italian value is already very good, but it would be much better if  southern regions were not suffering structural deficits”, explains Mario De Curtis, who is Professor of Paediatrics in the University of Rome, and Director of Neonatology Unit of the general hospital Umberto I in Rome. Very interesting are also the data of the neonatal mortality rate, which is the number of deaths for 1000 live births in the first 28 days of life. According to the UN Inter-agency Group for Child Mortality Estimation for 2017 the rate in Italy is 2 deaths for 1000 live births, the same as in France, Germany, Sweden and Finland, while in Switzerland the rate is 3/1000. “It is important to note that the Italian Health Systems is really aimed at protecting everybody, although of course we try our best to avoid ‘over treatment’. For instance, in case of very pre-term babies, we always evaluate the general conditions of the child, while in other countries there is a threshold of gestational age or birth weight, under which the newborn infant receives only palliative care. Recently we assisted a very pre-term infant, whose North European parents were by chance in Italy. The child would have not received intensive care in his own country, because there his birth age was considered to low. But we gave our best for him, and now he is in good health”, says Mario De Curtis.

Organ Transplantation is another reason to be proud. Starting from 1966, in Italy tens of thousands organ transplantations have been carried on. In the ranking of European countries for number of organ transplantations, Italy’s position is high. According to the Newsletter Transplant 2018 (not yet distributed, but to be published in a short time here ), in 2017 Italy was the third country for number of donors (1.714), following the world leader Spain (2.183), and France (1.933), but preceding United Kingdom (1.492) and Germany (797). In Switzerland deceased donors were 145 in 2017, but of course in this field it is impossible to compare countries with very different sizes (such as Italy and Switzerland) because of a number of reasons, among them because the number of citizens is strongly related with the one of donors. According to the same source, Italy was third for number of liver and heart transplantations, and at the fourth for those of kidney. “The leading position that Italy has in the field of organ transplantation is due to two key elements. First of all, our National Health System being public could effort the huge investments needed in this field: it is quite hard to imagine that an health system based on private investments could do the same, reaching the same targets. The second fundamental element is that people trust the system and this makes the number of donations to rise. Through transparent policies, we have been able to demonstrate that all possible efforts to save the life of a patient are done before he or she is declared death and explantation is taken into account. Moreover, in order to establish the best possible coupling between donor and recipient, we have set up a special unity operating 24 hours a day and trained to analyze every single case”, explains Alessandro Nanni Costa, Director of the National Transplantation Centre.

Last but not least, the costs of the system must be taken into account. Since it is a contributory system financed through taxes, and the service is the same for all, those with higher earning pay more than those who have lower incomes although they receive the same services. To many Italians, this equality in terms of health assistance represents a high expression of democracy. According to the report Oasis 2016, summarized by Sole 24 Ore (the Italian newspaper focused on economy), the expenses for the Italian Health Systems corresponds to about 7% of GDP (in Switzerland, the health costs amount to about 12% of GDP, ). The health costs pro capita in Italy are not high. The total expenditure pro capita, normalized according to the local purchasing power and including private expenses not reimbursed by the SSN, in 2014 was 3.239 dollars in Italy, 3.337 in the United Kingdom, 4.508 in France, 5.182 in Germany, and 9.403 in the USA.

And what is very important to stress, is that the public health system represents a driving force in the Italian economy, encouraging the development of high tech solutions, biotechnology and new drugs. “Health” is the sixth most important economic sector in the country, following manufacturing, but forerunning food and fashion.

 

È la biologia dei sistemi, bellezza

Era inevitabile che accadesse, ne avevo avuto qualche indizio, lo seguivo con la coda dell’occhio. Ma non mi era mai capitato di essere davvero investita dall’onda del cambiamento avvenuto in biologia negli ultimi anni. È accaduto quest’anno, quando mi sono rituffata nel mare della ricerca di base dopo molto tempo che mi limitavo a sorvolarlo. E l’immersione non è avvenuta in un punto qualsiasi, ma là dove schiuma e ribolle la ricerca più avanzata al mondo. Ed è là che ho incontrato l’onda. Si chiama biologia dei sistemi ed è un modo di affrontare i grandi quesiti sugli esseri viventi cercando di capire come le diverse componenti interagiscono, facendo uso di competenze interdisciplinari e strumenti di calcolo molto potenti. Detto così, ammetto che possa sembrare un po’ arido, ma tutto diviene molto concreto se si guarda ad alcune delle domande alle quali la biologia dei sistemi cerca di dare risposta. Ad esempio, perché mai alcune persone traggono beneficio da un farmaco e altre no? Perché alcuni non sviluppano mai resistenza verso una terapia contro un tumore e altri sì, o ancora, perché alcuni si ammalano pur facendo una vita sana e altri trascorrono allegramente una vita sregolata? (e qui se fossimo in televisione apparirebbe come monito lo smisurato sorriso di Mick Jagger) O ancora: sopravvivremo ai superbatteri resistenti agli antibiotici? E infine la domanda regina: come diamine si fa a diventare ultracentenari che scoppiano di salute?

Ma andiamo con ordine. Il mio viaggio alle frontiere della biologia dei sistemi inizia oltre un anno fa, nel mezzo delle riprese di Superquark, di ritorno in una fredda camera d’albergo (non era così fredda, ma dopo una giornata di riprese la cosa più bella sarebbe essere a casa…). Quella sera apro il computer e trovo la solita sfilza di decine mail da leggere. Comincio a eliminare il grosso. Una ha per oggetto “SystemsX”: in una frazione di secondo penso all’ennesima comunicazione anonima e senza neppure aprirla ho già il dito sul tasto “cestina”… poi mi fermo… come Wile Coyote quando acquisisce coscienza di stare per precipitare… e leggo meglio il mittente. Quella mail è risultata essere una delle più inaspettate e interessanti che mi sia mai capitato di ricevere (e da allora mi chiedo: chissà cosa c’era fra le decine di migliaia che negli anni invece ho cestinato….).

SystemsX.ch è un’iniziativa del Governo Svizzero. In dieci anni sono stati investiti circa cinquecento milioni di franchi (più o meno corrispondenti ad altrettanti euro) allo scopo di promuovere la biologia dei sistemi nella Confederazione Elvetica. Il Governo ha messo a disposizione metà della cifra, mentre l’altra metà è stata devoluta dalle istituzioni che ne hanno preso parte (anch’esse nella stragrande maggioranza pubbliche). Si è trattato di uno sforzo gigantesco che ha coinvolto 11 istituzioni, circa 2100 ricercatori e 401 gruppi di ricerca. Sono stati finanziati 248 progetti e supportati oltre un migliaio fra dottorandi e post dottorandi. Alla fine di questo impegno colossale, i responsabili del progetto hanno ritenuto necessario spiegare ai contribuenti il perché dell’investimento e l’importanza della biologia dei sistemi. E hanno pensato bene di farlo attraverso un documentario; quella mail che stavo per cestinare era il primo contatto che mi avrebbe portato all’incarico di realizzarlo (in inglese, tedesco, francese e italiano).

Se siete curiosi, il documentario in inglese è visibile qui, mentre in italiano è visibile qui  (regia di Luca Romani, montaggio di Giulio Pellizzieri, riprese di Marco Capriotti, e animazioni di Gruppo Creativo). E se volete ancora approfondire, abbiamo anche realizzato una app, scaricabile gratuitamente per ora solo per IPad, cercando su AppStore “SystemsX” (anche qui, la realizzazione è di Gruppo Creativo).

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Torniamo però alla biologia dei sistemi. Come dicevo, si tratta di cercare di capire come funziona un sistema biologico considerando il ruolo di tutte le sue componenti, sia che questo sistema sia rappresentato da una serie di eventi biochimici (ad esempio quelli che portano alla sintesi del colesterolo o alla differenziazione di cellule staminali), sia che si tratti di un insieme di cellule che interagiscono fra loro e con l’ambiente esterno (come avviene in un tumore o nelle comunità di microbi che abitano il nostro intestino), sia che si tratti di osservare un intero organismo che invecchia. Uno degli scienziati intervistati, Lucas Pelkmans, ha reso bene il perché dell’importanza di guardare all’insieme facendo un semplice esempio: un termitaio. Queste gigantesche strutture vengono considerate una delle invenzioni più complesse della Natura, per via della loro articolata organizzazione interna, della sofisticata strategia di mantenimento della temperatura e così via. Ora, naturalmente sarebbe impossibile riuscire a immaginare un termitaio limitandosi a osservare una termite, per quanto attentamente lo si faccia. Allo stesso modo, è davvero difficile figurarsi come funzioni un essere vivente, o anche solo un processo cellulare, senza prenderlo in considerazione nel suo insieme.

 

La biologia dei sistemi insomma si presenta come il contrario di quel riduzionismo biologico che in passato sembrava così promettente e che in effetti è servito a chiarire molte cose, ma che come tutto nella scienza è destinato a fare il suo corso per venire eventualmente superato.

Ma è davvero rivoluzionaria la biologia dei sistemi? La risposta è meno scontata di quanto sembri. Per qualcuno è semplicemente la naturale evoluzione della ricerca biologica, solo fatta con strumenti che sarebbero stati inimmaginabili fino a poco tempo fa. A Zurigo, Adriano Aguzzi, uno dei maggiori esperti al mondo in prioni, sta “spegnendo” uno a uno ciascuno dei circa 25.000 geni che sono nel corpo umano, allo scopo di capire quali di essi abbia un’influenza sui prioni. Lo scopo ultimo è andare alla radice di malattie come “mucca pazza”, ma anche del Parkinson e l’Alzheimer. Perché nessuno ha mai tentato prima qualcosa del genere? Non è solo questione di creatività e di idee, ma anche di strumenti: per rendere possibili esperimenti come quelli di Aguzzi occorrono grandi capacità di calcolo così da elaborare innumerevoli dati, oltre che competenze raffinate e diversificate.

Ma c’è un’altra domanda che era prioritario affrontare alla fine dell’iniziativa SystemsX.ch: perché un investimento tanto sostanzioso in un Paese tutto sommato piccolo? La risposta in realtà appare lampante non appena si varcano le porte di un laboratorio di ricerca elvetico. Infatti, nonostante nel nostro immaginario sia ancora rappresentata da banche, cioccolata, orologi e piste da sci, è nell’eccellenza scientifica che oggi la Svizzera trova il proprio simbolo più calzante. È un primato sul quale la Nazione ha puntato per garantire il proprio futuro, ma che occorre saper mantenere e questo significa grossi investimenti. È impossibile pensare di far progredire la scienza con l’eroismo e l’abnegazione dei pochi, come sembriamo voler ancora credere in Italia. E questo soprattutto perché la ricerca di frontiera ha bisogno di strumenti avanzatissimi, il più delle volte tutti da inventare. E poi ha bisogno di grandi gruppi formati di persone con le competenze più diverse e di giovani (non tutti destinati a restare nella ricerca). E tutto questo ha un costo. Ma ripaga.

La Svizzera ha capito l’importanza di non smettere di correre nella ricerca provandone le conseguenze sulla propria pelle, come ha raccontato Ruedi Aebersold, un biologo di primissimo piano e fra i padri fondatori di SystemsX.ch. La storia inizia ai tempi del Progetto Genoma Umano, che porterà al sequenziamento del DNA della nostra specie. A quel tempo diversi Paesi decisero di unire le forze per collaborare al progetto, ma la Svizzera non fu tra essi (e neppure l’Italia, nonostante uno dei primi sostenitori del Progetto Genoma fosse Renato Dulbecco). L’idea era che si potesse lasciare lo sforzo agli altri, per poi approfittare dei risultati una volta che questi fossero stati resi pubblici. Ma come ricorda Aebersold fu un grande errore, perché la scienza non è fatta solo di risultati, ma anche di tecnologie, strategie e competenze costruite per ottenerli. Così le nazioni che parteciparono al Progetto Genoma hanno mantenuto un vantaggio sia nella ricerca pubblica che nelle imprese private. E la Svizzera, quella volta, ha letteralmente perso un treno importante. SystemsX.ch è stato concepito proprio perché lo stesso non accadesse nella biologia dei sistemi. In gioco non c’è solo la possibilità di ottenere conoscenza ma posti di lavoro, competitività e alla fine, il benessere al quale la nazione aspira.

Qualche giorno fa sfogliavo una rivista, e mi sono imbattuta in una frase in latino, attribuita a Plinio “Ne umquam pars pro toto, cioè, mai considerare una parte come rappresentativa della totalità. Mi è parsa il motto perfetto per la biologia dei sistemi, e un po’ anche la prova che non importa quando nascono le buone idee, perché possono occorrere millenni prima che la tecnologia fornisca gli strumenti per realizzarle. Ma prima o poi, ci si arriva. Se rinascessi, ho pensato più volte in questi ultimi mesi, sceglierei ancora di studiare biologia. Anche se molto probabilmente questa volta vorrei farlo in Svizzera, e questa è la nota triste al termine di un’avventura lavorativa immensamente interessante.

Se la giornalista diventa Cappuccetto Rosso

Cari tutti,

torno a scrivere dopo tanto tempo sul blog per commentare un fatto curioso che mi riguarda.

Nella puntata del 28 giugno di Superquark è andato in onda un mio servizio sull’adeguamento dell’aspetto sessuale. Insomma, sulla transessualità. A onor del vero ho ricevuto molti messaggi personali a questo proposito, sia di apprezzamento che di rimostranza. Ma poi il servizio è stato messo su youtube (https://www.youtube.com/watch?v=omdDjVdBpVw). E qui ha raccolto (oltre a un po’ di hackeraggio che immagino dovrebbe lusingarmi) alcuni commenti dai telespettatori. Qualcuno si è concentrato sulla bravura di Piero Angela, qualcun altro ha commentato sul tema. E qualcuno, come è normale che sia, ha commentato il lavoro della autrice/giornalista, cioè il mio. E lo ha fatto con straordinaria profondità.

– “Ma chi ha truccato la Gallavotti” ha chiesto uno, dando prova di eccezionale spirito d’osservazione.

– “Sembra che le abbiano sparato il trucco in faccia”, ha risposto un altro altrettanto acuto.

– “Sì, sì, ha le gote alla Cappuccetto Rosso”, ha finalmente ribattuto il primo folgorato da subitanea intuizione

Fine dei commenti sul lavoro dell’autrice/giornalista.

Ora, c’è una cosa che mi ha raccontato Edoardo Cofani mentre lo intervistavo che mi ha molto colpita e che è riportata anche nel servizio. Mi ha detto che al termine del suo percorso di adeguamento sessuale, una volta acquisito un aspetto maschile, ha visto la propria credibilità sul lavoro crescere. E ancora si chiede perché…. Questo è un “fenomeno” che riportano molti di coloro che sono passati da un aspetto femminile a uno maschile (mentre chi segue l’intervento inverso vede diminuire la propria credibilità lavorativa). Questa osservazione mi è tornata in mente leggendo i commenti su youtube, dato che in effetti l’unica cosa che è stata rilevata del mio lavoro di autrice del servizio è… il trucco, mentre tutte le osservazioni, incluse le critiche, sul merito sono rivolti a Piero Angela. Mi scuso, effettivamente in televisione il trucco  è importante, questa e altre volte era sbagliato, e ci starò più attenta. Sarebbe più facile se dovessi pensare solo a quello, ma oltre a truccarmi devo trovare dei temi interessanti per i servizi, discuterli con Piero Angela, documentarmi, trovare le persone giuste da intervistare, scrivere il servizio, andare a girarlo, discutere con i registi, la produzione e le altre persone che letteralmente lo “creano”, e non solo. Per questo a volte sbaglio il colore del fard. Lavoro con Piero e Alberto Angela dal 1999, ed entrambi mi hanno letteralmente insegnato tutto ciò che so. E per quanto riguarda Superquark non smetterò mai di ringraziare Piero Angela per la fiducia che mi ha dato facendomi divenire una degli autori del programma. La sua grandezza e il suo ruolo in Superquark non solo non si discutono ma non hanno bisogno di essere spiegati. Ma la grandezza di Piero Angela sta anche nel fatto di aver formato delle persone in grado di fare Superquark, cosa che gli andrebbe riconosciuta e che lui stesso ricorda quando cita i nomi degli autori nel presentare ogni servizio. Personalmente quindi devo essergli grata fra l’altro per l’avermi resa autonoma e responsabile dei servizi che curo, assumendomi anche l’onere delle cose che in essi eventualmente non funzionano. Sotto il trucco spesso malfatto (ok, cambierò il colore del fard), c’è una giornalista piuttosto matura (anche anagraficamente) e con un’esperienza solida nel raccontare la scienza non solo in televisione. Noi giornaliste non dovremo mica vestirci da uomo per distogliere l’attenzione dal fard, vero?

Un Nobel per 2000 (anzi molti di più)

È finalmente arrivato il Nobel per il bosone di Higgs e il premio è andato a Peter Higgs e François Englert, cioè ai due teorici che per primi ne ipotizzarono l’esistenza circa cinquant’anni fa. Fin qui tutto secondo le previsioni e la vicenda potrebbe mediaticamente concludersi con gli ultimi titoli sulle prime pagine dei giornali. Ma in realtà sembra che qualcosa in noi umani si rifiuti di accettare la realizzazione di ciò che è atteso, probabile e ovvio. Così, all’affievolirsi dei rumori di festeggiamento, è emerso un sostenuto brusio di curiosità e a volte di disappunto perché molti si aspettavano che in qualche modo sarebbe stata premiata anche la ricerca sperimentale svolta al Cern.

Ma il Nobel avrebbe davvero potuto o dovuto essere assegnato diversamente?

La risposta è: dipende.

Intanto chiariamo subito che sarebbe stato davvero impossibile premiare una o due singole persone fra quelle che hanno lavorato al Cern e dunque materialmente “trovato” il bosone di Higgs. I due esperimenti Atlas e CMS, grazie ai quali è stata catturata la particella, hanno coinvolto migliaia di persone. Certo il fatidico 4 luglio 2012 nel quale fu annunciata la scoperta parlarono solo i due fisici che avevano coordinato i loro colleghi, cioè l’italiana Fabiola Gianotti e l’americano Joe Incandela, ma si esprimevano a nome di tutti e presentavano i dati raccolti grazie allo sforzo della loro intera comunità scientifica. Nel caso della Gianotti le speranze di chi la voleva a Stoccolma erano alimentate dalla sua straordinaria personalità e dal fatto che era stata alla guida di Atlas per tutto il tempo della caccia al bosone (mentre Incandela era appena succeduto all’italiano Guido Tonelli). E in più Fabiola Gianotti ha dimostrato negli anni di avere una statura straordinaria diventando un simbolo della ricerca scientifica. Nel suo ruolo di responsabile dell’esperimento Atlas è riuscita nell’incredibile compito di coordinare circa tremila fisici da tutto il mondo garantendo che i lavori procedessero sempre in maniera fluida e senza intoppi. Ha fatto le cose talmente bene che la sua autorità non è mai stata messa in discussione né si sono mai sollevate critiche contro di lei da parte dei suoi collaboratori. Per chi conosce l’ambiente dei fisici, e il loro essere spesso riottosi, si tratta di due autentici miracoli. Se per il Nobel occorresse la dimostrazione di aver compiuto atti sovrannaturali come per la santità, a Fabiola Gianotti sarebbe stato dato d’ufficio. Ma il Nobel richiede altri requisiti.

È evidente che coloro che hanno guidato Atlas e CMS hanno avuto un ruolo importante nella scoperta del bosone, ma altrettanto essenziale è stato il compito di chi ha concepito gli esperimenti, di chi ha trovato le geniali soluzioni tecnologiche per farli funzionare, di chi ne ha guidato la costruzione. A conti fatti si tratta di almeno una ventina di persone, a voler restringere il campo. E le regole del Nobel impongono che i co-premiati possano essere al massimo tre.

Ma c’era un’altra alternativa alla copia “Higgs –  Englert”, molto più percorribile.

Nei giorni immediatamente precedenti all’assegnazione del premio aveva cominciato insistentemente a girare la voce che esso sarebbe stato assegnato ai due teorici e al Cern nel suo insieme. In effetti sembra che il comitato del Nobel abbia seriamente preso in considerazione questa possibilità, stando a quanto dice un membro stesso della Reale Accademia delle Scienze Svedese . Tuttavia essa avrebbe rappresentato un grosso strappo rispetto alla storia del riconoscimento che finora è stato assegnato solo a persone, mai a istituzioni (è avvenuto che fossero premiate delle istituzioni solo nel caso del Premio Nobel per la Pace che però segue procedure diverse). Il cambiamento di rotta sarebbe stato teoricamente possibile e con esso l’Accademia svedese avrebbe preso atto del fatto che la scienza è ormai il risultato di uno sforzo collettivo di molte persone, se non moltissime. Il Cern è il simbolo della scienza globalizzata e offriva l’occasione ideale per rompere con la tradizione del passato, ma così non è stato.

Non c’è dubbio che la scienza è diversa da com’era ai tempi in cui Alfred Nobel inventò il suo riconoscimento e probabilmente oggi è necessario stabilire cosa si premia con il Nobel: se la scoperta più importante fatta da uno scienziato o la scoperta più importante e basta. Le due soluzioni sono entrambe legittime ma per ora a Stoccolma sembrano optare per la prima, e personalmente sono d’accordo con loro. La grandissima forza del Premio Nobel a mio avviso sta nel creare degli eroi: punta il riflettore su degli scienziati assorti nei loro studi e li trasforma in icone, facendo sognare il grande pubblico. Insomma crea dei modelli positivi come la Montalcini, Dulbecco e Higgs che servono da ispirazione per le generazioni successive anche per la particolare vicenda umana di ciascuno. Sarebbe diverso se a essere premiata fosse una istituzione, farebbe battere meno il cuore. 

Dove è Voyager?

Dove è finito Voyager 1? Pochi giorni fa un po’ in sordina è uscita la notizia che la mitica sonda potrebbe aver lasciato il Sistema Solare. Anche se l’annuncio è molto controverso, e la NASA non è d’accordo, mi è sembrata una possibile novità troppo emozionante per non dedicarle almeno un post.

Voyager 1 è una sonda lanciata dalla NASA il 5 settembre del 1977 con lo scopo di esplorare il Sistema Solare e oltre. Per più di 35 anni insomma la sonda ha viaggiato, percorrendo quasi 20 miliardi di chilometri, lasciandosi alle spalle un pianeta che cambia. Già questo mi sembra qualcosa di estremamente romantico. Ma ancora più romantico è il fatto che a bordo di Voyager ci sia un disco d’oro, voluto dall’astrofisico Carl Sagan. Lo scienziato lo concepì nella convinzione che fosse utile corredare la sonda di una sorta di carta d’identità della Terra, qualcosa che potesse raccontare ad eventuali extraterrestri chi siamo. E quali informazioni vennero incise su questo disco? molte. Fra di esse immagini di vita quotidiana, addirittura quelle di un supermercato, oltre che immagini di natura e animali. E poi qualcosa che parlava delle nostre scoperte scientifiche: la doppia elica del DNA, l’immagine di un microscopio, immagini dal nostro Sistema Solare. E 90 minuti di musica. Quale musica? La lista è lunga, e mancano delle pietre miliari. Avrebbero dovuto esserci i Beatles, ma c’è una leggenda che dice che i loro agenti non riuscirono a definire i diritti d’autore. Ci sono brani di Bach, Mozart, Beethoven, ma anche Chuck Berry, un brano Soul, musica dei nativi americani Navajo, musica indiana, giapponese, cinese, africana … L’obiettivo naturalmente era quello di dare agli eventuali extraterrestri una immagine del nostro pianeta e dei suoi abitanti quanto più equilibrata e senza tempo possibile. Ovviamente non ci si riuscì, e a bordo del Voyager si trova ormai il ritratto di un pianeta e di una umanità che personalmente a me suscitano soprattutto tenerezza e nostalgia, e chissà che effetto potranno mai fare ad ET.

Ma torniamo alla domanda iniziale: dove è Voyager in questo momento? difficile dirlo, per il semplice fatto che nessuno ha definito con precisione dove finisce il Sistema Solare. La notizia però è che a rivista Geophysical Review Letters ha appena accettato uno studio di due ricercatori americani i quali affermano che la sonda sarebbe finalmente entrata nello spazio interstellare lo scorso 25 agosto. A partire da quella data infatti gli strumenti a bordo avrebbero registrato un brusco cambiamento nei raggi cosmici con cui viene in contatto, cioè nel flusso di particelle che pervade tutto l’universo ma che ha caratteristiche diverse da un punto all’altro. La NASA però è di tutt’altro avviso: l’agenzia americana infatti sostiene in un comunicato che si potrà affermare che Voyager è uscito dal Sistema Solare solo quando gli strumenti registreranno una inversione del campo magnetico, cosa che per ora non si è ancora verificata. Avanti Voyager, la strada non è ancora finita.

Quando brucia la Città dei sogni

È tanto che manco da questo blog. Più volte negli ultimi mesi mi sono ripromessa di scrivere un post ma i ritmi di lavoro non mi lasciavano pace. Oggi ricomincio con una notizia che non avrei mai voluto dare e che non si può non commentare.

Ieri notte, a Bagnoli, è andato a fuoco un sogno. Un sogno tenace, ostinato, creativo, innovativo, a volte inquieto, ma sempre bellissimo. È bruciata Città della Scienza di Napoli.

Difficile spiegare davvero la sua magia a chi non la ha mai vista. Io ci sono stata molte volte. Di solito prendevo il treno da Roma e scendevo a Campi Flegrei. Poi un breve tragitto in taxi, giusto il tempo per toccare con mano il degrado che si può raggiungere nel nostro Paese. Strade dissestate, edifici tirati su senza grazia né regole e spesso, qua e là, enormi mucchi di spazzatura abbandonata. Poi l’arrivo a Città della Scienza: un sogno nato dal cuore e dalla mente del fisico Vittorio Silvestrini e delle centinaia di persone che vi hanno lavorato a partire dalla fine degli anni ottanta. Entrando nelle “mura” di Città della Scienza si rimaneva subito incantati dall’eleganza dei vecchi edifici industriali di Bagnoli splendidamente ristrutturati per ospitare gli spazi espositivi. E lasciavano senza fiato le gigantesche vetrate dietro alle quali luccicava il mare di Napoli. Un gioiello incastonato nella desolazione, come per altri versi sono gli scavi di Ercolano che si trovano poco distante.

Città della Scienza è e resta nonostante tutto la prova di quello che è possibile fare in Italia. Ho letto sui giornali che era stata costruita su modello de La Villette, a Parigi. Non è vero. Città della Scienza aveva scopi analoghi a quelli de La Villette, ma non modelli: era una struttura originale con un ruolo unico. Non a caso l’avevamo scelta alcuni anni fa come luogo da cui fondare MASAD, una associazione che si propone di incoraggiare il dialogo su temi scientifici fra le due sponde del Mediterraneo, nella convinzione che la scienza è un linguaggio di pace su cui tutti possono confrontarsi, al di là di religioni e ideologie. Al momento della fondazione di MASAD, Città della Scienza aveva già una forte tradizione come creatrice di dialogo. Fra l’altro aveva avuto un ruolo cruciale in una mostra sulla matematica creata in collaborazione fra israeliani e palestinesi. Milioni di visitatori hanno conosciuto la scienza nella sue sale, facendo funzionare strumenti meccanici, giocando con i fluidi o con l’ottica. Le mostre temporanee hanno reso accessibile la ricerca di frontiera, nelle sale per le conferenze si sono succeduti scienziati di primissimo piano. E poi qui sono nati innumerevoli progetti, collaborazioni internazionali, discussioni fra esperti di tutto il mondo sul ruolo della scienza nella società.

Naturalmente, non mancavano le ombre. Come molte istituzioni culturali del nostro sfortunatissimo Paese, anche Città della Scienza funzionava (bene) grazie allo sforzo eroico di chi la mandava avanti: un “esercito di gatti”, anche questo un fenomeno tipicamente italiano. Cioè persone intellettualmente autonome, poco inclini a considerare il lavoro come routine, neppure se si svolge dietro un scrivania sistemata in un ufficio.  Persone preparatissime e motivate, ognuna di grande creatività che davano tutto il possibile, senza avere in cambio neppure la certezza di uno stipendio.

L’emergenza era quotidiana. La Villette, il “modello” come hanno detto i giornali, riceve ogni anno un centinaio di milioni di euro di finanziamento. Il Deutsches Museum di Monaco (un altro “modello”) oltre ad analoghi finanziamenti ha recentemente ricevuto un “extra” di 400 milioni di euro per rinnovarsi. Il direttore della struttura tedesca mi spiegò a suo tempo che in tempi di crisi in Germania si era deciso di risparmiare su tutto tranne che sulla cultura, perché solo la cultura (sia classica che scientifica, se questa divisione ha mai avuto un senso) può consentire di uscire dall’emergenza.. Invece a Napoli, come in altri analoghi musei d’Italia, si lottava e si lotta ogni giorno per cifre centinaia di volte inferiori. Nel nostro Paese, abbiamo una capacità straordinaria di fare le nozze con i fichi secchi.

Non tutto però è andato bruciato ieri notte. Il patrimonio più prezioso di Città della Scienza non è infiammabile e ancora una volta consiste nelle capacità professionali che sono state formate in questi anni. Persone che possono ricostruire ciò che è andato perduto. Perché, come ci insegnano le foreste più antiche, un incendio è anche una opportunità di rinascita. Bisogna però che questa volta i fondi arrivino, e adeguati.

Le urne ci hanno recentemente detto che almeno un quarto di italiani crede ancora una volta in un sogno: quello della democrazia dal basso. Un sogno al quale per ora sembra mancare la concretezza che è essenziale per “fare”. Il problema è che come si è sentito spesso ripetere negli incontri a Città della Scienza, essere cittadini responsabili e in grado di prendere decisioni è faticoso. Per riuscirci bisogna essere informati e conoscere. Per questo negli anni a Bagnoli si erano tenuti innumerevoli dibattiti su temi spinosi come bioetica, staminali, sperimentazione animale, cambiamenti climatici. Mai con lo scopo di convincere, ma sempre con quello di confrontarsi. È qualcosa che non possiamo permetterci di lasciare andare in fumo.

Lettera di Bertolucci, Gianotti e Tonelli sui tagli all’INFN

Pubblico per intero la lettera per media sui tagli all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) inviata da Sergio Bertolucci, direttore della ricerca del Cern, Fabiola Gianotti, responsabile dell’esperimento Atlas, e Guido Tonelli, già  responsabile dell’esperimento Cms (Atlas e Cms sono i due esperimenti che hanno consentito di scoprire la nuova particella che sembra proprio essere il bosone di Higgs)

Abbiamo appreso con sconcerto e profonda preoccupazione che il decreto associato alla cosiddetta “spending review” prevede un taglio al finanziamento dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del 3.8% nel 2012 e del 10% nel 2013 e nel 2014.

A complemento dei tagli nei fondi, si prescrive anche la riduzione del 10% del personale tecnico e amministrativo, evidentemente considerato una zavorra improduttiva e non una componente fondamentale della ricerca.

Se questi tagli fossero confermati, l’INFN sarebbe messo nell’impossibilità di proseguire efficacemente le sue attività e di onorare i suoi impegni nazionali ed internazionali: più che il rischio, ci sarebbe la certezza di una rapida e irrimediabile perdita delle posizioni di eccellenza costruite in quasi sessant’anni di storia , e tuttora validamente presidiate, malgrado la costante erosione dei finanziamenti negli ultimi quindici anni.

Non è una questione di destra o di sinistra: l’atteggiamento verso la ricerca è uno dei pochi ambiti in cui la politica italiana esprime un approccio pienamente bipartisan. Di segno sbagliato, purtroppo.

Quest’ultima decisione è poi particolarmente irricevibile sia nel metodo che nel merito.

Sul metodo è sufficiente sottolineare l’assoluta mancanza di una qualunque interazione tra il Governo e la dirigenza dell’Istituto, segno, come minimo, di una preoccupante leggerezza nel valutare le conseguenze strategiche dei tagli, se non addirittura  di un’incapacità preconcetta a riconoscere l’eccellenza nel caso essa si manifesti  in un ente pubblico.

Entrando poi nel merito, non si capisce perché l’INFN debba essere l’istituto di gran lunga più penalizzato in termini assoluti e tra i più tartassati in termini relativi: il rilevante contributo dell’INFN alla storica scoperta annunciata recentemente al CERN, autorevolmente riconosciuto dal Presidente della Repubblica in una lettera pubblicata sul sito del  Quirinale, o il lusinghiero giudizio della commissione del MIUR per l’assegnazione della parte premiale del fondo di finanziamento ordinario, inspiegabilmente sembrano generare effetti di segno contrario.

Queste misure vanno poi ad aggravare una situazione già di per se critica, frutto di provvedimenti che negli ultimi anni, oltre che la compressione dei bilanci, hanno via via imposto la riduzione della pianta organica, il blocco delle carriere, il congelamento dei salari.

Con queste ultimi provvedimenti l’INFN verrebbe di fatto riportato alla situazione in cui si trovava nei primi anni ’80, con buona pace dei blabla (anche questi bipartisan) sull’importanza strategica della ricerca e dell’innovazione per la crescita del nostro paese.

Infine non può sfuggire il messaggio devastante trasmesso ai nostri giovani (e bravi!) ricercatori: in pratica un invito ad andarsene da questo Paese e, in un perverso effetto domino, un brutale scoraggiamento delle vocazioni scientifiche per gli studenti delle scuole superiori.

Il rischio di creare un danno irreversibile è dunque altissimo.

Ci auguriamo che il Governo e/o il Parlamento sappiano correggere rapidamente questa scelta miope e pericolosa.

Da parte nostra non assisteremo in silenzio all’ennesima dilapidazione di un altro pezzo  del futuro di questo Paese.

Sergio Bertolucci – Direttore della Ricerca, Cern

Fabiola Gianotti   – Responsabile Esperimento ATLAS

Guido Tonelli        – già Responsabile Esperimento CMS